Qui è dove vi racconto la bella esperienza fatta con Òbelo – aka Claude Marzotto e Maia Sambonet – durante il metaworkshop AIAP: progettare un laboratorio visivo.
UN META WORKSHOP SUI WORKSHOP
La perculiarità di questo metawokshop AIAP, per me, è stata soprattutto la solida dimensione metaprogettuale e metodologica unita ad una leggerezza dell’esperienza pratica.
Personalmente non amo molto questo tipo di strumento didattico/partecipativo. Spesso si risolve in una attività non preparata in cui si chiede alle persone, in un numero ingestibile, di fare cose qualunque – tipo tappezzare pareti di post it 😉 – discutere in dieci minuti dei massimi sistemi con perfetti sconosciuti, o di produrre idee geGniali a costo zero per l’azienda che li propone. Ammetto, sono un po’ prevenuta, ma nei lunghi anni di frequentazione assidua di conferenze professionali, informali o accademiche ho sempre portato a casa molto poco da questo tipo di attività.
A mia volta, però, in ambito didattico, mi trovo “costretta” ad organizzarne – come al WIAD 2018 di Trento o alla Tiajin DW – per cercare di attivare dinamiche partecipative, di confronto o di warm up tra gli studenti che non hanno un background di design. Così ho provato a mettermi in gioco per imparare, a mia volta, a farne di migliori.
Come recita la descrizione ufficiale si è trattato di un “workshop dedicato alla progettazione di workshop, rivolto a chiunque sia interessato a sviluppare attività partecipate originali all’interno della propria pratica progettuale, di insegnamento e/o di ricerca visiva. Utilizzando gli spazi della sede Aiap e una selezione di materiali messi a disposizione dall’archivio del CDPG, i partecipanti faranno esperienza di diversi modelli di interazione collettiva con e attraverso le immagini e il segno grafico. In particolare vedremo come gestire l’uso dello spazio di lavoro e la sua progettazione come campo da gioco in divenire, la regia dei tempi, la scelta dei materiali e delle regole in relazione agli obiettivi, gli strumenti e le tecniche di autoproduzione per tenere traccia e restituire gli esiti dell’attività.”
I FONDAMENTALI SECONDO ÒBELO1.
Gli ingredienti proposti da Claude Marzotto e Maia Sambonet – alla luce della loro lunga esperienza professionale e formativa – sono pochi e chiari. La definizione che hanno dato è quella di una
attività di apprendimento in un tempo e spazio limitati
e la cosa curiosa è che proprio questi limiti diventano il punto di partenza e di forza da cui le cose si generano.
I tre aspetti fondamentali, dunque sono:
- l’interazione tra le persone, trattandosi di una attività partecipativa e di gruppo che deve generare risultati sia collettivi sia individuali. Qualcosa che sia di più delle singole parti, ma che, al contempo, ciascuno possa sentire sua e riportarsi a casa alla fine della giornata
- la gestione del tempo. Uno dei problemi più comuni, secondo me, è la dispersione o l’accelerazione in alcune fasi per cui, spesso, si parte con calma e si finisce in maniera inconcludente perché non è avanzato il tempo per una vera sintesi. Il workshop e le sue attvità vanno pensate come una sorta di scirpt: una macchina programmata per catalizzare risultati
- il dialogo con lo spazio: un ws è sempre site specific. Lo spazio in cui le attività si svologono ne influenza l’esperienza e la percezione e quindi va conosciuto e allestito in anticipo. Il ws è a metà tra la mostra e l’azione scenica in cui le cose accadono, si trasformano e diventano visibili.Ma lo spazio è anche quello dei formati e delle superfici su cui si lavora: verticali come i muri per motrare/guardare o i tavoli i pavimenti per muoversi e lavorare. Il parallelo è con la suddivisione che Benjamin2 fa tra l’arte – esposta e appesa – come momento di ricezione/contemplazione e la grafica, viecersa come momento di azione, in cui fruizione e dislocazione avvengono in un piano ed in uno spazio fluidi e orizzontali.
COSA ABBIAMO FATTO
Analogia
La prima fase è stata di tipo esplorativo associativo in cui le immagini – provenienti dagli archivi già sistematizzati del Centro di Documentazione del Progetto Grafico dell’AIAP – venivano esposte, scelte, organizzate e selezionate per dare vita a dei cluster significativi e condivisi.
Costellazioni
Il secondo passaggio è stato quello di determinare uno spazio circoscritto in cui trasferire una ulteriore selezione cercando di individuare dei criteri impliciti per decidere cosa fosse dentro o fuori da questo perimetro, fiscio e concettuale. Attribuire un titolo al quadro è stato il modo di esplicitare le connessioni e le relazioni.
Associazione
Le immagini vengono rimesse in circolo nella terza attività. in cui, secondo criteri visivi immediati i partecipanti in una sorta di redazione collettiva compongono una sequenza di venti frame sul supporto di un leporello. Velocità, dialogo con l’immagine precedente, salti logici e impatto visivo sono i criteri di scelta e mediazione.
Riappropriazione
Infine, un momento di produzione collaborativa di un’unica immagine fuori scala, composta di singoli frammenti e contributi. Disegnare per terra, insieme, con pennarelloni che lasciano spazio solo ad un trattto significativo e incisivo per descrivere e ricostruire le immagini sono gli ingredienti delle fase di riappropriazione, tramite il gesto, delle immagini.
COSA MI PORTO A CASA
Le regole del gioco
Intanto un’esperienza che mi ha fatto lavorare sulle immagini e sugli immaginari secondo criteri misti di tipo logico e razionale, ma anche estetico ed emotivo mantenendo comunque una sorta di logica interna, associativa per i contenuti, collaborativa per i metodi, collettiva per i risultati.
Strumenti e autoproduzione
Il ritorno a strumenti poveri, concreti, im-mediati ha reso l’eperienza ancora più potente. Il focus non era il come, ma era il cosa: materiali a bassa risoluzione che ti costringono a concentrarti sul contenuto togliendo variabili inutili, difficoltà tecniche e azzerando eventuali disparità di competenze. Una sorta di grado zero della possibilità espressiva che ti costringere a lavorare sull’idea, sul messaggio e sul gesto.
Un attimo di suspense…
E, infine, una sorta di trucco: non svelare prima il finale! Ovvero far lavorare le persone per singoli step, senza ancora sapere quale dovrà essere il risultato, in modo che siano presenti nel qui e ora, nella singola fase del processo. Un’accortezza che permette di uscire dai propri schemi per abbracciare i vari passaggi come dei microprogetti essi stessi.